Terzo gas ad effetto serra più presente nell’atmosfera, il protossido d’azoto troppo spesso viene dimenticato nella lotta ai cambiamenti climatici

Il protossido d’azoto, secondo l’Environmental Protection Agency americana, ha un potenziale di riscaldamento climatico pari a 310. Ciò significa che, su cento anni, risulta 310 volte più impattante del biossido di carbonio per unità di massa. E rappresenta oggi quasi il 7% delle emissioni totali di gas ad effetto serra. Ma – sarà forse perché è un gas esilarante – pochi sembrano prenderlo sul serio nelle strategie di lotta al riscaldamento globale. Eppure, dopo la CO2 e il metano, rappresenta il terzo gas responsabile dei cambiamenti climatici più presente nell’atmosfera terrestre.

La presenza di protossido d’azoto è cresciuta del 2% ogni decennio

Negli ultimi 150, inoltre, la sua presenza è cresciuta del 2% ogni decennio, secondo i dati forniti dal Global Carbon Project (GCP). Ma da cosa dipendono le emissioni di protossido d’azoto? Il gas è un sottoprodotto della filiera produttiva dell’acido nitrico, un composto chimico usato per produrre fertilizzanti agricoli. «Il motore dell’aumento della concentrazione è proprio l’agricoltura – conferma Hanquin Tian, principale autore dello studio, secondo quanto riportato dal quotidiano francese Novethic -. E la domanda crescente di cibo per esseri umani e per animali aumenterà ancora le emissioni mondiali. C’è un conflitto tra il modo in cui nutriamo le persone e la necessità di stabilizzare il clima».

È per questo che il caso del protossido d’azoto sembra indicare l’importanza del ruolo di regolatore degli Stati o comunque dei soggetti pubblici, rispetto alla dinamica economica che le imprese stanno seguendo per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Sono infatti spesso gli incentivi pubblici a determinare o meno l’azione delle imprese anche in questo settore.

Ne ha scritto di recente Phil McKenna, giornalista della statunitense InsideClimate News, mettendo a confronto due impianti di due Paesi in cui i governi non hanno regolamentato e incentivato alcuna azione per l’abbattimento del protossido d’azoto: l’impianto di Donaldsonville in Lousiana (Usa) e quello di Navoiyazot a Navoi (Uzbekistan). Mentre il primo impianto abbatte appena il 25% delle emissioni, quello uzbeko le riduce del 97%. Risultato: nel 2019 il sito americano ha rilasciato 6.665 tonnellate di N2O nell’atmosfera. Pari alle emissioni annuali di 430mila automobili.

Perché l’Uzbekistan è più avanzato degli Stati Uniti

Perché l’Uzbekistan, nazione certamente non fra le più avanzate dal punto di vista economico, dello sviluppo tecnologico e delle normative ambientali, è riuscito laddove gli Usa hanno mancato? Il successo ottenuto dall’impianto di Navoiyazot è dettato dall’estrema economicità ed efficienza della tecnologia utilizzata per l’abbattimento di queste emissioni. Il cui costo va da 1 a 5 dollari al metro cubo di biossido di carbonio equivalente. Ed è stato coperto grazie ad aiuti provenienti da un Paese terzo: la Germania. La tecnologia retrofit di cattura e stoccaggio negli impianti di carbone, al confronto, raggiunge costi pari a 80 dollari al metro cubo.

Il governo federale tedesco ha lanciato il programma di aiuti a Paesi terzi di cui ha beneficiato anche l’Uzbekistan al fine di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. L’Agenzia tedesca per la cooperazione internazionale stima che esistano nel mondo 580 impianti di acido nitrico, di cui solo un quarto abbatte le emissioni di protossido d’azoto. Dei 30 Paesi eligibili per gli aiuti tedeschi, ben 14 hanno mostrato interesse e 4 di questi – Messico, Georgia, Tunisia e Zimbabwe – hanno siglato degli accordi formali.

Il business dei sistemi di riduzione delle emissioni

Anche le Nazioni Unite avevano avviato un simile programma che sostanzialmente si fondava sulla vendita di sistemi di riduzioni delle emissioni di protossido d’azoto ai Paesi sviluppati, da parte di Paesi – come la Cina – che ricavavano così notevoli profitti dall’impiego di questa tecnologia. Alcuni degli impianti cinesi, infatti, sembra che ricavassero decine di milioni di dollari da questo commercio, molto più dei costi di installazione delle tecnologie di abbattimento.

Ma quando il fondo delle Nazioni Unite si è prosciugato, nel 2012, i produttori hanno cessato di riportare i dati sulle emissioni abbattute e probabilmente hanno anche cessato di sviluppare le tecnologie di abbattimento. Un errore che i tedeschi non vogliono commettere con la loro iniziativa, tanto che gli accordi con i Paesi beneficiari prevedono che, anche dopo l’esaurimento del finanziamento, i governi approvino normative che obblighino gli impianti a continuare ad implementare tali tecnologie.

In America solo un programma volontario per l’abbattimento

Un programma obbligatorio di compensazione delle emissioni che incentiva gli impianti chimici a ridurre le emissioni esiste nell’Unione europea. E uno simile è stato recentemente introdotto in Australia.

Negli Stati Uniti, al contrario, il governo non ha avviato alcuna azione e le poche iniziative in corso sono dipese da un programma volontario avviato da alcuni impianti per vendere carbon credits ad altre imprese per compensare le proprie emissioni. Ma il giro d’affari non appare sufficiente ad incentivare la partecipazione al programma della gran parte degli impianti. I tentativi di obbligare o spingere l’EPA a regolamentare il settore, da parte di Ong come Sierra Club o università, anche sotto l’era Obama, non hanno sortito finora effetti. Ciò dimostra come il mercato da solo non sia sufficiente ad affrontare efficacemente questo problema. Il risultato, scrive sempre Phil McKenna, è che pochi sono gli impianti che aderiscono volontariamente al programma di abbattimento. E a pagarne le conseguenze è la collettività.

Fonte: Valori