Mentre il blocco delle attività migliora la qualità dell’aria, si studia una relazione di causa-effetto tra inquinamento atmosferico e diffusione del contagio

Le osservazioni della riduzione dell’inquinamento amosferico

La pandemia di coronavirus ha rallentato l’attività industriale riducendo temporaneamente i livelli di inquinamento dell’aria in tutto il mondo. Le immagini raccolte dal satellite Sentinel-5P dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) mostrano che nelle ultime sei settimane i livelli di biossido di azoto (NO2) nelle città e nei distretti industriali, prima in Asia ed ora in Europa, sono stati notevolmente inferiori rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

La riduzione dei livelli di inquinamento è stata osservata per la prima volta a Wuhan, nella Cina Centrale. Città di 11 milioni di persone, importante snodo dei trasporti che ospita centinaia di fabbriche che forniscono parti di automobili e altro hardware alle catene di approvvigionamento globali, Wuhan è stata messa a dura prova dalla pandemia già a fine gennaio, periodo per il quale, nella Cina orientale e centrale, la Nasa aveva osservato una riduzione del 10-30% nei livelli di NO2.

Anche nella Corea del Sud, sebbene il paese abbia evitato di mettere in blocco intere regioni e sia ricorsa a tecniche evolute di tracciamento per contrastare il contagio da coronavirus, sono state osservate riduzioni dei livelli di NO2.

I cambiamenti nel nord Italia sono particolarmente sorprendenti perché le emissioni provenienti dalle industrie concentrate nella Pianura Padana solitamente rimangono intrappolate dalle Alpi, rendendo questa area uno dei punti cruciali dell’inquinamento dell’Europa occidentale. I dati trasmessi dal satellite Sentinel-5P hanno invece rivelato che, da quando il paese è entrato in blocco il 9 marzo, i livelli di NO2 a Milano e in altre parti del nord Italia sono diminuiti di circa il 40%. “È abbastanza senza precedenti”, ha dichiarato Vincent-Henri Peuch, direttore del Servizio atmosfera Copernicus. “In passato, abbiamo registrato importanti variazioni dei livelli di NO2 a causa del tempo per circa un giorno. Ma mai una diminuzione delle emissioni per un periodo così lungo.” La causa della riduzione non è ancora chiara poiché oltre al rallentamento dell’attività nel cuore industriale italiano un altro fattore è probabilmente la riduzione del traffico stradale, che rappresenta la quota maggiore delle emissioni di biossido di azoto in Europa.

Anche le analisi riportate dall’Ispra, elaborate dagli esperti del Sistema nazionale di protezione ambientale (SNPA), stimano nella Pianura Padana una riduzione delle emissioni di NO2 coerente con l’analisi condotta dal servizio europeo Copernicus-CAMS. Come dichiarato dal comunicato SNPA: “Si riduce in maniera significativa uno dei principali inquinanti dell’atmosfera, il biossido di azoto (NO2), a seguito delle misure introdotte dal Governo per l’emergenza Coronavirus. Si stima una diminuzione dell’ordine del 50% nella Pianura Padana.” I valori di NO2 mediani misurati dalle stazioni di monitoraggio sono progressivamente diminuiti, passando dal mese di febbraio al mese di marzo da quantità comprese tra 26-40 mcg/m3 a quantità comprese tra 10-25 mcg/m3. L’analisi si è concentrata sull’andamento del biossido di azoto (NO2) in quanto tra gli inquinanti dell’aria, l’NO2 è quello che più rapidamente risponde alle variazioni delle emissioni e viene prodotto da tutti i processi di combustione, compresi quelli derivanti dal traffico veicolare. Per quanto riguarda le polveri sottili (Pm10 e Pm2.5) invece il discorso è più complesso perché la concentrazione di particolato fine nell’aria è influenzata dalle condizioni atmosferiche e perché la principale fonte di emissioni di PM10 primario nel bacino padano è la combustione per il riscaldamento domestico e non il traffico veicolare.

Le ricadute della riduzione dell’inquinamento sulla salute e sull’ambiente

Da tempo l’Oms e la letteratura scientifica ribadiscono il dramma causato dall’inquinamento atmosferico, un problema di sanità pubblica globale che l’emergenza coronavirus sta parzialmente oscurando ma che provoca almeno 7 milioni di morti all’anno, di cui più di 76 mila in Italia. E la stessa Agenzia europea per l’Ambiente (EEA) nel suo rapporto annuale del 2019 sulla qualità dell’aria ha calcolato come l’Italia sia in Europa il primo paese per morti premature per biossido di azoto con 14.600 decessi l’anno.

In questa prospettiva Marshall Burke, ricercatore alla Stanford University ha dichiarato che il calo degli inquinanti a causa dello shutdown da coronavirus sia in Cina che in Europa potrebbe salvare più vite di quante se ne perderanno, direttamente, con il Covid-19. Si tratta però di stime perché con l’epidemia ancora in corso non sono ancora disponibili i dati completi sulla mortalità per tutte le cause ed è prematuro realizzare una vera e propria misurazione degli impatti della mortalità.

Anche Paul Monks, professore di inquinamento atmosferico all’Università di Leicester ed ex presidente del comitato consultivo scientifico del governo britannico sulla qualità dell’aria, ha affermato che nel lungo periodo una riduzione dell’inquinamento atmosferico potrebbe comportare alcuni benefici per la salute, anche se è improbabile che questi compensino la perdita di vite umane causate della malattia. Il professore inoltre ha sottolineato come ci saranno importanti lezioni da imparare su ciò che sta avvenendo poiché in questo momento stiamo conducendo l’esperimento più su vasta scala mai visto: “Stiamo osservando ciò che potremmo vedere in futuro se potessimo passare a un’economia a basse emissioni di carbonio”.

Con uno sguardo al futuro post-pandemia il Ministero dell’ambiente è intervenuto sull’argomento con un comunicato del 23 Marzo. Il Ministro Sergio Costa ha dichiarato che: “La forte riduzione degli inquinanti in atmosfera nelle regioni del Bacino Padano, in particolare del biossido di azoto, testimonia l’esigenza di puntare al più presto, non appena saremo usciti da questo momento di seria emergenza nazionale, su una nuova normalità, con forme di mobilità il più possibile sostenibili e che riducano drasticamente l’impatto sull’ambiente. Già da tempo ormai sappiamo, e i cambiamenti climatici ce lo ricordano in ogni area del Pianeta, che la nostra priorità è costruire un modello di sviluppo ambientalmente sostenibile, capace di invertire in maniera drastica e immediata l’abitudine al sovra inquinamento, al sovra consumo e sfruttamento delle risorse naturali. È un modo di vivere non più accettabile e tollerabile”.

La correlazione tra inquinamento dell’aria e Covid-19

In questo quadro eccezionale ed anomalo di osservazione della riduzione delle emissioni, sebbene sia dato osservare gli effetti positivi sull’ambiente conseguenti al lockdown, l’attenzione della comunità scientifica e dei media si è concentrata sulla possibile relazione tra inquinamento atmosferico e Covid-19. L’osservazione (superficiale) che i punti “caldi” dell’epidemia siano stati la Cina, la Corea del Sud, Teheran e la Pianura Padana sembrerebbe corroborare questi sospetti.
Già da molto tempo gli addetti ai lavori hanno compreso le connessioni tra inquinamento da particolato atmosferico e malattie nella popolazione. Nello specifico il particolato fine, fa da vettore (carrier) di ogni tipo di inquinante, dai metalli pesanti, agli idrocarburi policiclici aromatici, dai batteri ai virus.

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità – che nelle sue linee Guida sulla qualità dell’aria riconosce l’NO2 come un gas tossico che a concentrazioni superiori a 200 mcg/m3 provoca un’infiammazione significativa delle vie aeree – sta conducendo uno studio per determinare se le particelle di inquinamento atmosferico possano costituire un vettore che diffonde Covid-19 rendendolo più virulento.

Nello specifico poi, uno studio del 2003 condotto da ricercatori dell’Università della California e di Shanghai, ha dimostrato una possibile relazione tra inquinamento atmosferico e mortalità per SARS nella popolazione cinese (2002-2003) mettendo in luce l’esistenza di un rischio di mortalità amplificato (circa doppio) nelle aree a più alto inquinamento rispetto a quelle con qualità dell’aria migliore.

Si sono così moltiplicati nell’ultimo periodo studi e articoli che hanno ipotizzato un ruolo importante dell’inquinamento atmosferico nell’aumentare la letalità o la diffusione del coronavirus. In questa visione le particelle inquinanti, oltre ad aggravare i problemi di salute esistenti, potenzialmente rivestono un ruolo negativo rispetto al diffondersi del contagio.

In Italia, il Position Paper diffuso dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) “Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione ha messo in correlazione l’inquinamento atmosferico e la diffusione del Coronavirus incrociando i dati provenienti dalle centraline per il monitoraggio della qualità dell’aria delle Agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa) con i dati diffusi dalla Protezione civile sul numero di contagiati da coronavirus, aggiornati al 3 marzo.
Partendo dalla premessa dell’esistenza di una solida letteratura scientifica che correla l’incidenza dei casi di infezione virale con le concentrazioni di particolato atmosferico (es. PM10 e PM2,5), lo studio ha evidenziato come la specificità della velocità di incremento dei casi di contagio che ha interessato in particolare alcune zone del Nord Italia potrebbe essere legata alle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico che ha esercitato un’azione di carrier (vettore di trasporto) e di boost (accelleratore). Suggerendo infine di tenere conto del contributo apportato dallo studio e sollecitando misure restrittive di contenimento dell’inquinamento.

Fabrizio Bianchi, capo dell’Unità di epidemiologia ambientale e registri di patologia all’Istituto di fisiologia clinica del CNR ha commentato così i risultati dello sudio di SIMA: “ho letto con interesse il lavoro che, partendo dalla plausibilità generale che soggetti esposti cronicamente a inquinamento atmosferico siano più suscettibili all’aggressione di virus, e specificamente di Covid–19, valutano che la velocità di contagio osservata in particolare in nord Italia potrebbe essere legata alle condizioni ambientali. I risultati, basati su correlazione semplice tra livelli di PM10 e numero di casi di Covid–19 per provincia, richiedono di essere confermati e approfonditi mediante un disegno di studio più evoluto che tenga conto anche della disomogeneità territoriale del tempo di propagazione virale; tuttavia concludere con il supporto a favore di misure restrittive di contenimento dell’inquinamento ritengo sia un monito su cui concordare”.

Allo studio pubblicato da SIMA ha fatto seguito la Società Italiana Aerosol (IAS) che ha affermato: “E’ noto che l’esposizione, più o meno prolungata, ad alte concentrazioni di PM aumenta la suscettibilità a malattie respiratorie croniche e cardiovascolari e che questa condizione può peggiorare la situazione sanitaria dei contagiati”. Tuttavia aggiunge, “il periodo di monitoraggio disponibile per l’indagine epidemiologica è ancora troppo limitato” e di conseguenza non risulta dimostrato l’effetto di maggiore suscettibilità al contagio al COVID-19 dovuto all’esposizione alle polveri atmosferiche, e che “comunque questa ipotesi merita di dover essere accuratamente valutata con indagini estese ed approfondite”. Concludendo che se pur ingiustificata la proposta di adottare misure di contenimento dell’inquinamento per combattere il contagio “è indubbio che la riduzione delle emissioni antropiche, se mantenuta per lungo periodo, abbia effetti benefici sulla qualità dell’aria e sul clima e quindi sulla salute generale.”

Il dibattito resta apertissimo e certamente vedrà nuovi sviluppi nelle prossime settimane, quando emergeranno nuove analisi sui dati atmosferici e sulla diffusione del contagio.

Nel frattempo appare opportuno riportare la posizione di Greenpeace che ha dichiarato: “applicando il principio di precauzione […] politiche ambientali più severe per il miglioramento della qualità dell’aria sono importanti di per sé e l’emergenza che stiamo vivendo non può che rafforzare questa conclusione.”

A cura di Gloria Perrella, redazione di Ancler